Il volontariato contro la violenza
Parlare del problema della violenza sulle donne non è agevole. Il
rischio è quello di limitarsi a formulare condanne su cui tutti sono d’accordo
quando le vittime hanno soprattutto bisogno di azioni concrete in loro aiuto.
In questa linea si pone il convegno organizzato dall’ Anteas unitamente a CISL,
FNP E SIULP sul tema: “Il volontariato contro la violenza: azioni e proposte
per difendere la dignità delle donne”. In questa occasione è stata presentata
la “Dichiarazione di intenti” sottoscritta dalle sigle precedentemente citate.
Essa parte dalla constatazione che non esistono ancora percorsi operativi
coordinati, consolidati e condivisi tra tutte le forze che possono entrare in
gioco nei casi di violenza sulle donne, sui bambini, sugli anziani e, più in
generale, sui soggetti più deboli. Il riferimento è, ad esempio, alle forze dell’
ordine, ai servizi sociali, agli ospedali (ai loro pronto soccorso), alle
associazioni di volontariato che offrono sostegno psicologico, giuridico, la
cui azione potrebbe essere potenziata da un sistema di risposte integrato,
differenziato e flessibile rispetto alle diversità delle domande dei soggetti
cui è diretto. Questa presa di coscienza si pone all’interno del processo di
cambiamento della concezione di violenza che il Parlamento italiano ha colto e
promosso con recenti disposizioni legislative (come quella contro lo stalking).
Il termine processo non è casuale in quanto denota il carattere di successione
di diversi fenomeni legati fra loro e lascia spazi aperti per indagini
successive. Un primo riferimento in questo senso è stato evidenziato, nel
convegno, dalla presidente del Telefono Rosa, Maria Gabriella Moscatelli, la
quale ha affermato che la donna vittima di una violenza dovrebbe essere
riconosciuta come persona nella sua individualità e non come mera portatrice di
un disagio. Questa significa cercare di elaborare interventi più complessi,
superando quelli centrati esclusivamente sull’individuo, come la psicoterapia,
a favore di quelli che considerano anche il contesto familiare e quello sociale
di cui la vittima fa parte. In altri termini, si tratta di favorire un
cambiamento culturale che è stato precisato dagli interventi successivi di
Arnaldo Chianese, presidente ANTEAS, Paola Panerai, vicepresidente ANTEAS,
Linda Sabbadini, dirigente ISTAT, Maria Trentin, Coordinamento Donne FNP – CISL
Nazionale, Liliana Ocmin, segretario nazionale CISL, Ermenegildo Bonfanti,
Segretario generale FNP – CISL, Francesco Cirillo, vicecapo Polizia di Stato.
Il volontariato ed il sindacato producendo “beni relazionali” (cioè di
relazione tra persone) costituiscono alcuni degli attori principali delle
politiche a favore delle categorie svantaggiate poiché, nella stragrande
maggioranza dei casi, le vittime di violenza (donne, bambini, anziani) vivono
in una situazione di solitudine relativa, sono cioè privi di una rete
relazionale che li possa proteggere. Ne deriva che un’azione mirata nei loro
confronti comporta su un piano individuale: 1) di favorire un processo di
consapevolezza passando da una condizione che loro ritengono di “inferiorità”
ad una percezione di sé positiva e ad una presa di coscienza dei propri
diritti. Su un piano collettivo, al volontariato ed ai sindacati è richiesto di
porsi come “area di mediazione” per i seguenti, possibili interventi:
rilevazione del disagio e progettazione degli interventi; promozione della
collaborazione tra i soggetti istituzionali e altri di solidarietà sociale;
valutazione, monitoraggio e verifica di esperienze; promozione di iniziative di
formazione e sensibilizzazione in collaborazione con altre istituzioni, in primis la scuola. Il frutto di
quest’azione sinergica potrà produrre un bene che sarà sociale non tanto per le
sue caratteristiche intrinseche, ma per il processo che lo avrà generato. In
altri termini, la realizzazione di un “prodotto sociale” è l’individuazione ed
il consolidamento di connessioni e scambi finalizzato all’ empowerment da intendersi non come processo di un aumento di potere
di un individuo su un altro, ma nella prospettiva delineata precedentemente,
alla consapevolezza che l’ambiente non è un’alterità ostile ma può svelare
aperture e possibilità. In questa linea merita particolare attenzione il
decreto legislativo che ha eliminato la distinzione tra figli legittimi e
naturali che è stato illustrato, nel corso del convegno, dal Sottosegretario al
Ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri, il quale ha personalmente seguito
l’iter parlamentare del provvedimento.
Il decreto legislativo sulla filiazione
Nel corso del convegno organizzato dall’ Anteas unitamente a CISL, FNP
E SIULP sul tema: “Il volontariato contro la violenza: azioni e proposte per
difendere la dignità delle donne” è stata evidenziata l’importante riforma
sulla filiazione. Essa è stata illustrata dal Sottosegretario al Ministero
della Giustizia Cosimo Maria Ferri, il quale ha affermato che è finalmente
scomparsa dall’ordinamento giuridico italiano la distinzione tra figli
legittimi e naturali che è stata sostituita da quella unica di figlio. Non vi
sono più “fratelli” e “fratellastri”. E’ un cambiamento linguistico frutto di una
lunga e difficile battaglia culturale e giuridica che affonda le sue radici
nella struttura normativa del Codice civile del 1942. Esso poneva
sostanzialmente un’ accentuata dualità tra i figli di coniugi sposati e non,
evidenziando la propria propensione per la famiglia fondata sul matrimonio. La
conseguenza, di diritto e di fatto, era che i figli legittimi (ossia con
genitori legati da un vincolo ufficiale) godevano di una serie di prerogative a
danno di quelli naturali (ovvero di genitori non sposati). Un esempio
esplicativo riguardava il “diritto di commutazione”, ossia la possibilità di
liquidare la quota spettante al figlio naturale da parte di quello legittimo,
escludendo il “fratellastro” dall’asse ereditario. Questo stato di cose
corrispondeva ad una evidente discriminazione che si è cercato di eliminare, in
parte, sia con l’art. 30 della Costituzione, sia con la riforma del diritto di
famiglia del 1975. Tuttavia le differenze, per quanto limate, persistevano. La
nostra legislazione continuava a non considerare i continui e profondi
cambiamenti nella società, che sempre più figli nascevano fuori dal matrimonio,
erano adottati o concepiti con l’ausilio di tecniche di fecondazione assistita.
Con il provvedimento legislativo del Governo si è inteso eliminare le
discriminazioni, ora i figli sono uguali, senza aggettivi. Alla base di questa
riforma non vi è solo una diversa concezione della famiglia, ma anche un
differente approccio giuridico. Al centro della normativa vi è la tutela del
figlio il quale, se ha compiuto dodici anni o anche meno se è in grado di
discernimento, deve essere ascoltato su tutti i temi che lo riguardano come, ad
esempio, sullo stabilire il genitore affidatario. Attraverso questa riforma si
sono riallineate le norme del nostro diritto civile a quelle internazionali,
ossia alle previsioni dell’art. 2 della Convenzione di New York del 1989 in
riferimento all’ascolto del fanciullo e dell’art. 6 della Convenzione di
Strasburgo del 1996 in tema di esercizio dei diritti del fanciullo. Una
conseguenza di questo diverso approccio è il cambiamento terminologico
legislativo di potestà genitoriale (potestà dei genitori di proteggere, educare
e tutelare gli interessi dei figli) in responsabilità genitoriale che definisce
in maniera più adeguata l’impegno dei genitori e pone in risalto il superiore
interesse dei figli minori.
Un altro aspetto fondamentale del provvedimento in esame è che il
Governo ha esercitato la sua delega garantendo la piena uguaglianza, anche ai
fini ereditari, dei figli, compresi quelli adottivi. Inoltre, le norme relative
alla filiazione producono effetti successori nei confronti di tutti i parenti e
non solo rispetto ai genitori.
In questa linea è da evidenziare un’ ulteriore progresso rispetto alla
legislazione precedente. In essa non vi era parificazione parentale come
nipoti, cugini. Con quella attuale, i figli sono, per diritto, parenti dei
parenti di entrambi i genitori. Ai nonni, in particolare, è riconosciuto il
diritto ad avere rapporti significativi con i nipoti ed agire in giudizio per
la tutela di questo diritto. E’ una conquista, come ha affermato il
Sottosegretario al Ministero della Giustizia Cosimo Maria Ferri, frutto della
forte determinazione dei nonni “illegittimi” che hanno chiesto strumenti
giuridici che assicurassero loro la possibilità di frequentare e di occuparsi
almeno per un poco dei nipoti, anche nel caso in cui i rapporti con i genitori
siano compromessi.
Cities for life
Il 29 novembre la Comunità di S. Egidio nelle sale del Campidoglio ha
promosso l’ VIII Meeting Internazionale “No justice without life”, un summit
internazionale per l’abolizione della pena di morte. All’ evento hanno
partecipato il presidente del Senato Pietro Grasso, il sindaco di Roma Ignazio
Marino, il presidente della Comunità di S. Egidio Marco Impagliazzo, il
rappresentante speciale per i diritti umani della Commissione europea Stavros
Lambrinidis, ministri della Giustizia e rappresentanti di 22 Nazioni. Il
Meeting rappresenta un consolidato appuntamento in cui giuridici, politici ed
importanti esponenti della società civile di diversi Stati si sono confrontati
ed hanno individuato gli obiettivi da cercare di raggiungere nel corso
dell’anno. Dalla discussione sono emerse alcune importanti considerazioni. La
prima è che l’abolizione della pena di
morte è una meta talmente grande, che principalmente attraverso uno sforzo
comune è possibile sensibilizzare le coscienze dei cittadini e costituire
gruppi in grado di esercitare una pressione sui politici per farla abrogare. In
questa direzione è stata promossa, dalla Comunità di S. Egidio, la “Giornata
internazionale Città per la vita, contro la pena di morte” per il 30 novembre.
Essa ha visto la partecipazione di oltre 1600 città, fra cui vi sono 70
capitali. Ognuna di esse ha offerto il proprio contributo in modo diverso, ad
esempio attraverso una marcia, una raccolta di firme. A Roma vi è stata
l’illuminazione speciale del Colosseo con testimonianze del Braccio della Morte
e di persone fortemente impegnate nella Campagna per l’abolizione della pena di
morte. Un’altra importante considerazione emersa in occasione del Meeting è che
prevedere la pena di morte significa, di fatto, far dipendere la vita di un
individuo dall’altrui volontà. Essa può essere orientata da un desiderio
legittimo (combattere la delinquenza, il narcotraffico) , ma accettare questa
sanzione significa introdurre l’idea che l’esistenza in vita possa dipendere da
una serie di condizioni che la permettano. Ieri la purezza razziale, oggi la
condivisione al regime e domani? Se quindi nessuno potrebbe condannare a morte
(sia pure per plausibili motivazioni), il diritto alla vita è inalienabile.
Inoltre, il dominio assoluto sulla vita altrui darebbe alla libertà umana un
carattere di incontestabile arbitrarietà. In questa linea, quando la Comunità
di S. Egidio dichiara che il rispetto incondizionato del diritto alla vita di
ogni persona è uno dei pilastri su cui si regge ogni società civile, vuole
semplicemente promuovere uno Stato umano. Uno Stato che riconosca come suo
primario dovere la difesa dei diritti fondamentali della persona, specialmente
di quella più debole.
Fiorella Ialongo
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