martedì 27 giugno 2017

CONSIDERAZIONI ECO-PSICO-SOCIALI SUL LIBRO DI Alessandro D’Avenia: “ l’arte di essere fragili come Leopardi può salvarti la vita” - Mondadori



Grazie alla trasmissione: “Quante storie “di Corrado Augias, son venuto a conoscenza del libro su cui sto per esporre alcune mie considerazioni, libro dedicato a uno dei più grandi geni che detengono uno scanno nel mio Pantheon personale. Particolarmente privilegiato è quello che riservo per colui che considero il mio vate: Giacomo Leopardi. Le sue opere tra i più efficaci ingredienti del mio viatico quotidiano, giacché, per  proseguire il viaggio su questo mondo in modo più soddisfacente possibile, considero giovevoli i: l’essere in grado di instaurare sempre nuovi rapporti e di coltivare interessi culturali.
             Per quel che riguarda questo libro, nel leggere spiegazioni letterarie, come si conviene a un prof. di lettere, di primo acchito, sarei stato tentato di esporre le mie considerazioni tecniche; ma sono stato “stoppato” (come forse, nel  loro gergo, ancora oggi, direbbero i ragazzi) da una reazione del mio viso che, forse dopo tanto tempo, si è arrossito di vergogna, specialmente quando m’è toccato di constatare come tanti dei suoi alunni avevano già ottenuto decisivo sollievo dei propri problemi, grazie alla lettura di precedenti  libri del loro, appunto,  prof. Alessandro D’Avenia.
                Un’ulteriore più approfondita lettura di questo libro, mi ha portato a constatare, invece, che l’autore sia tutt’altro che digiuno  sul versante scientifico, specialmente quando, in uno degli ultimi “capitoli”, cioè lettera sull’argomento scuola, egli rileva  come un’intuizione  del Leopardi avesse  anticipato  spiegazioni,  oggi  date dalle neuroscienze.
                Mi ritrovo pure in sintonia con l’autore quando parla di una scuola che sogna come non  pedissequamente condizionata dal programma. Ebbene io, in collegio, mettevo da parte i testi di grammatica e sintassi, per dedicare  buona parte delle diciotto ore di studio del fine settimana a leggere, anche nell’originale in greco e in latino, opere di autori che mi attraevano di più (da qui la mia usuale carente scorrevolezza del periodare che, allorché una mia  lettrice aveva trovato che un mio scritto era più scorrevole, per farmi un complimento era incorsa in un simpatico lapsus immediatamente autocorretto… con un “più scurrile!”.  L’asino sarebbe pure cascato alla versione dall’italiano in latino, ma questo  è un altro discorso). E in quanto alla componente del gradevole nel dedicarsi alla letteratura, come  già socio del  CIGI (Comitato Italiano per il Gioco Infantile), son rimasto fedele al principio del “ludendo discitur”, tanto che, convinto sostenitore della ludoteca,  oltre a iniziative che ho promosso sul campo,  fondate  sulle attività ludiche, su l’ingrediente ludico, da alcuni anni, si è sviluppato un lavoro di gruppo che si conclude con l’indicazione  della  verifica dei prerequisiti prima dell’inizio della frequenza  della scuola dell’obbligo, appunto mediante  specifiche attività di gioco.   
                Un’altra curiosa sintonia con Alessandro D’Avenia la trovo allorché, a  pag  92, nella lettera dedicata al Canto notturno del  pastore errante,  scrive: “… il giorno del nostro compleanno, non è una festa, “forse” è soltanto un funerale”. Ebbene. Da quando, circa una ventina di anni fa, un’amica alla quale avevo telefonato per farle gli auguri di buon compleanno mi  aveva  risposto  piangendo perché si sentiva di aver  consumato un altro anno della sua vita, io da allora, ci gioco su (evidentemente  per difesa  contro l’angoscia della fine) e se l’interlocutore, al compleanno,  mi risponde  di sentirsi di aver un anno in meno (da vivere), sento di dovergli  esprimere le mie condoglianze.
                Mi son consolato, trovandomi in linea con l’atteggiamento pedagogico di  questo autore, pensando a quando, inviato dal mio Ufficio per parlare di droga  a degli allievi di scuola media, mi ero guardato bene dal parlare di droga: sedutomi sulla cattedra,  rimanevo in attesa di una loro iniziativa, stando a guardarli mentre si scatenavano facendo casino e, allorché alcuni di loro si erano avvicinati un po’ sorpresi, gli avevo confidenzialmente, chiesto: ”Ma,  dopo tutto questo giocare a sfottò, riuscirete a stabilire un rapporto amichevole con  qualcuno dei propri compagni o … non vi sentirete ancora più solli come capita, a volte, di sentirsi nella propria famiglia? li avevo toccati sul punctum più dolens, per cui me li ritrovai tutti seduti ai loro posti, pronti ad ascoltarmi, così come nei giorni seguenti,  alla fine dell’ora, in fila, per pormi una domanda o/e farmi una confidenza.
                Degno di particolare rilievo mi pare che, anche  per questo straordinario Genio,  quella matrigna di Madre Natura, ancora una volta,  goda nel prendersi gioco degli umani,  con un’ennesima  paradossalità di cui  si mostra costellata la nostra realtà: come per Beethoven, a cui toccò, da sordo, di compore le sue  più grandi opere, per il nostro Giacomo,  quasi cieco, con estrema sofferenza della vista, scrivere  le sue più importanti  opere filosofiche: lo Zibaldone e  le Operette morali, per  non dire della Ginestra!
                Con lui condividerei il tormento riguardo alla  fede religiosa e, con il mio  quasi compaesano Alberto Cavaliere, lamenterei tale mancanza di fede così: “Ed un veleno non ho mai trovato che  uccida il dubbio o un solo preparato che ossigeni la fede moribonda” ( V. “Congedo”,  nella sua Chimica In Versi); ma, protendo verso una concezione immanentista, mi ritrovo nei versi virgiliani  -  anche se dall’autore
concepiti per  tutt’altro contesto Eneide, VI, 726- 727 - : “Spiritus intus alit, totamque  infusa per artus, Mens agitat molem et magno se corpore miscet”.
                Ma ancora più paradossalmente sorprendente si mostra che l’autore di questo libro presenti colui il quale viene considerato per antonomasia pessimista come  chi “ti può salvare la vita”!  Giacomo Leopardi  stesso si mostra consapevole della funzione-viatico delle sue opere, come quando nel Canto del Pastore Errante  dice di sé:  “dell’esser mio frale qualche bene o contento avrà forse  altri”.
                Se la memoria non mi falla, nello  Zibaldone, alla  lettura della cui opera, una dozzina d’anni fa dedicai  un’intera estate, egli è più esplicito riguardo al sollievo che altri avrebbero potuto avere  grazie alle sue opere.
                Ancora paradossale appare quel che, con una delle più fedeli “leopardiofile”,  Loretta Marcon, abbiamo attribuito a questo versatile Genio, in quattro pagine di un articolo pubblicato da Universum nell’Antologia  di Letteratura Contemporanea: Poeti  e Scrittori d’Italia 2004-2005, a cura di Renza Agnelli e Giovanni Campisi: ”Ci si può sentire soli anche in compagnia

 GIACOMO LEOPARDI: PSICOTERAPEUTA ANTE LITTARAM E PRAETERINTESIONALE?”.
                In effetti a Giacomo Leopardi, poeta-filosofo del vero, oltre che riconoscergli che sia dotato di una forma mentis da uomo di scienza, dovremmo  essergli grati per certi “effetti secondari”… -  nella fattispecie, desiderabili - delle sue opere  che,  sia pur non  deliberatamente ricercati, non ci fanno sentire più soli, fungendo da viatico nella quotidiana fatica del vivere: le sue parole non sono consolatorie come quelle che comunemente si adottano, adducendo argomentazioni riferite a positività che, paradossalmente, finiscono di far sentire più solo e sconsolato chi  sia già solo e sconsolato. La sua produzione artistica nasce da un suolo (per assonanza viene il termine inglese soul) desolato - come quello del “Vesevo” su cui fiorisce rigogliosa la Ginestra - in sintonia con l’animo di  chi si trovi in crisi esistenziale.
                 Riporto due mie datate composizioni in versi in cui mi son sentito in sintonia, oltre che  con  Foscolo, con il Leopardi dell’”apparir del vero”:

VARIAZIONI SU TEMI LEOPARDIANI   ( A Se stesso)
E  SU  TEMI FOSCOLIANI  (Alla Sera)
Inesorabile avanza il giorno, / rendendo al circostante le forme delle dure essenze
già dissolte nel buio della  notte, svelando la realtà di ieri, / con la speranza del meglio, ma pure con il timore / del "peggio che non ha mai fine"! / Altrettanto inevitabile,  e a volte troppo duro,
l'impatto all'emergere della consapevolezza! / Ma a rendere più o meno sgradevole l'incontro con il reale
è, spesso, il conseguente  dissolversi dell' immaginario onirico / e, ancor di più, dei "cari inganni"
d'onde, ieri, anelante,  ti pascevi di speranza. / Se un tale ricorrente evento a te risultasse troppo crudele
e, per questo, volessi por fine al deludente gioco, / dovresti uccidere la genitrice di ogni cocente delusione. eliminare  la fonte d'onde scaturisce ogni illusione: / la Speranza;
ma allora dovresti  pure tener conto / che ti priveresti di questo essenziale/, sia pur ingannevole, propellente della vita!  / Fin tanto che la Speranza, / incontrastata albergherà in fondo al tuo cuore,
perennemente riuscirà  ad allettarlo, / giacché, a dispetto di ogni precedente,
negativa  esperienza , come la mitica salamandra dura a morire, / essa rinascerebbe sempre  dalle ceneri di ieri, / perché la tua vita a barcamenarsi prosegua / nell'eterno gioco delle illusioni  e conseguenti delusioni!
Roma, 15 aprile 1996
            Con l’enigma informato alla Speranza “che delude sempre”, la rancorosa Turandot  sfida  il temerario  principe Calaf che osa aspirare alla sua mano: “Nella cupa notte vola un fantasma iridescente. Sale, dispiega l’ali sulla nera, infinita umanità! Tutto il mondo lo invoca, tutto il mondo lo implora! Ma il fantasma  sparisce con l’aurora per rinascer nel cuore! Ed ogni note nasce ed ogni giorno muore!”.
                Ed ecco l’altra poesia (prelavata, come quella precedente, dalla raccolta di mie composizioni in versi nell’ INTERMEZZO (v. nel sito: www.pierluigialndo,net: MISCELLANEA). Questi versi concepiti in un giorno di febbraio, quando,  uscendo dall’ufficio, osservavo  delle piante fiorite come in avanzata primavera ):  



                                                                                   TEMERARIA PIMAVERA

Piante, che ai primi soli, / quando ancora  le invernali intemperie  son  lì in agguato/,  dei vostri fiori  aprite le corolle, / perché non date retta al sensibile Poeta, /  che, ancora una volta, / rivolgendosi/ alla  “Madre temuta e pianta”, / che, “per uccider, partorisce e nutre” / s’era schierato dalla vostra parte, / rampognandola così: "perché di tanto inganni i figli tuoi?"/ Perché, quasi ogni anno, v'illudete tanto facilmente, / prestandovi all'insidioso gioco? …/ Quando il sole precoce vi fa sentire  /  ch'è giunta primavera, /  oh, state attente,  prima di sfoggiare /  gli smaglianti, delicati colori dei vostri fiori, /che,  fiduciosi, si stagliano sul cielo di cobalto. /   Infida è spesso Primavera che,  con imprevedibile bufera, /  potrebbe, col suo gelo immobile,/  in un attimo, rovinare gli sprovveduti petali,/
  rendendo vano il lento tessere della Natura.
Roma, 22 febbraio 1992

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