Grazie alla
trasmissione: “Quante storie “di Corrado Augias, son venuto a conoscenza del libro
su cui sto per esporre alcune mie considerazioni, libro dedicato a uno dei più
grandi geni che detengono uno scanno nel mio Pantheon personale.
Particolarmente privilegiato è quello che riservo per colui che considero il
mio vate: Giacomo Leopardi. Le sue opere tra i più efficaci ingredienti del mio
viatico quotidiano, giacché, per
proseguire il viaggio su questo mondo in modo più soddisfacente
possibile, considero giovevoli i: l’essere in grado di instaurare sempre nuovi
rapporti e di coltivare interessi culturali.
Per quel che riguarda questo libro,
nel leggere spiegazioni letterarie, come si conviene a un prof. di lettere, di
primo acchito, sarei stato tentato di esporre le mie considerazioni tecniche;
ma sono stato “stoppato” (come forse, nel
loro gergo, ancora oggi, direbbero i ragazzi) da una reazione del mio
viso che, forse dopo tanto tempo, si è arrossito di vergogna, specialmente
quando m’è toccato di constatare come tanti dei suoi alunni avevano già
ottenuto decisivo sollievo dei propri problemi, grazie alla lettura di
precedenti libri del loro, appunto, prof. Alessandro D’Avenia.
Un’ulteriore più approfondita
lettura di questo libro, mi ha portato a constatare, invece, che l’autore sia
tutt’altro che digiuno sul versante
scientifico, specialmente quando, in uno degli ultimi “capitoli”, cioè lettera
sull’argomento scuola, egli rileva come
un’intuizione del Leopardi avesse anticipato
spiegazioni, oggi date dalle neuroscienze.
Mi ritrovo pure in sintonia con
l’autore quando parla di una scuola che sogna come non pedissequamente condizionata dal programma. Ebbene
io, in collegio, mettevo da parte i testi di grammatica e sintassi, per
dedicare buona parte delle diciotto ore
di studio del fine settimana a leggere, anche nell’originale in greco e in
latino, opere di autori che mi attraevano di più (da qui la mia usuale carente
scorrevolezza del periodare che, allorché una mia lettrice aveva trovato che un mio scritto era
più scorrevole, per farmi un complimento era incorsa in un simpatico lapsus
immediatamente autocorretto… con un “più scurrile!”. L’asino sarebbe pure cascato alla versione
dall’italiano in latino, ma questo è un
altro discorso). E in quanto alla componente del gradevole nel dedicarsi alla
letteratura, come già socio del CIGI (Comitato Italiano per il Gioco
Infantile), son rimasto fedele al principio del “ludendo discitur”, tanto che,
convinto sostenitore della ludoteca,
oltre a iniziative che ho promosso sul campo, fondate
sulle attività ludiche, su l’ingrediente ludico, da alcuni anni, si è
sviluppato un lavoro di gruppo che si conclude con l’indicazione della
verifica dei prerequisiti prima dell’inizio della frequenza della scuola dell’obbligo, appunto
mediante specifiche attività di
gioco.
Un’altra curiosa sintonia con
Alessandro D’Avenia la trovo allorché, a
pag 92, nella lettera dedicata al
Canto notturno del pastore errante, scrive: “… il giorno del nostro compleanno,
non è una festa, “forse” è soltanto un funerale”. Ebbene. Da quando, circa una
ventina di anni fa, un’amica alla quale avevo telefonato per farle gli auguri
di buon compleanno mi aveva risposto
piangendo perché si sentiva di aver
consumato un altro anno della sua vita, io da allora, ci gioco su
(evidentemente per difesa contro l’angoscia della fine) e se
l’interlocutore, al compleanno, mi
risponde di sentirsi di aver un anno in
meno (da vivere), sento di dovergli
esprimere le mie condoglianze.
Mi son consolato, trovandomi in
linea con l’atteggiamento pedagogico di
questo autore, pensando a quando, inviato dal mio Ufficio per parlare di
droga a degli allievi di scuola media,
mi ero guardato bene dal parlare di droga: sedutomi sulla cattedra, rimanevo in attesa di una loro iniziativa,
stando a guardarli mentre si scatenavano facendo casino e, allorché alcuni di
loro si erano avvicinati un po’ sorpresi, gli avevo confidenzialmente, chiesto:
”Ma, dopo tutto questo giocare a sfottò,
riuscirete a stabilire un rapporto amichevole con qualcuno dei propri compagni o … non vi
sentirete ancora più solli come capita, a volte, di sentirsi nella propria
famiglia? li avevo toccati sul punctum più
dolens, per cui me li ritrovai tutti
seduti ai loro posti, pronti ad ascoltarmi, così come nei giorni seguenti, alla fine dell’ora, in fila, per pormi una
domanda o/e farmi una confidenza.
Degno di particolare rilievo mi
pare che, anche per questo straordinario
Genio, quella matrigna di Madre Natura,
ancora una volta, goda nel prendersi
gioco degli umani, con un’ennesima paradossalità di cui si mostra costellata la nostra realtà: come
per Beethoven, a cui toccò, da sordo, di compore le sue più grandi opere, per il nostro Giacomo, quasi cieco, con estrema sofferenza della
vista, scrivere le sue più
importanti opere filosofiche: lo
Zibaldone e le Operette morali, per non dire della Ginestra!
Con
lui condividerei il tormento riguardo alla
fede religiosa e, con il mio
quasi compaesano Alberto Cavaliere, lamenterei tale mancanza di fede
così: “Ed un veleno non ho mai trovato che
uccida il dubbio o un solo preparato che ossigeni la fede moribonda” (
V. “Congedo”, nella sua Chimica In
Versi); ma, protendo verso una concezione immanentista, mi ritrovo nei versi
virgiliani - anche se dall’autore concepiti per tutt’altro contesto Eneide, VI, 726- 727 - : “Spiritus intus alit, totamque infusa per artus, Mens agitat molem et magno se corpore miscet”.
Ma ancora più paradossalmente
sorprendente si mostra che l’autore di questo libro presenti colui il quale
viene considerato per antonomasia pessimista come chi “ti può salvare la vita”! Giacomo Leopardi stesso si mostra consapevole della
funzione-viatico delle sue opere, come quando nel Canto del Pastore
Errante dice di sé: “dell’esser mio frale qualche bene o contento
avrà forse altri”.
Se
la memoria non mi falla, nello
Zibaldone, alla lettura della cui
opera, una dozzina d’anni fa dedicai
un’intera estate, egli è più esplicito riguardo al sollievo che altri
avrebbero potuto avere grazie alle sue
opere.
Ancora paradossale appare quel
che, con una delle più fedeli “leopardiofile”,
Loretta Marcon, abbiamo attribuito a questo versatile Genio, in quattro
pagine di un articolo pubblicato da Universum nell’Antologia di Letteratura Contemporanea: Poeti e Scrittori d’Italia 2004-2005, a cura di
Renza Agnelli e Giovanni Campisi: ”Ci si può sentire soli anche in compagnia -
GIACOMO LEOPARDI: PSICOTERAPEUTA ANTE LITTARAM E
PRAETERINTESIONALE?”.
In effetti a Giacomo Leopardi, poeta-filosofo del vero, oltre che
riconoscergli che sia dotato di una forma mentis da uomo di scienza,
dovremmo essergli grati per certi
“effetti secondari”… - nella
fattispecie, desiderabili - delle sue opere
che, sia pur non deliberatamente ricercati, non ci fanno
sentire più soli, fungendo da viatico nella quotidiana fatica del vivere: le
sue parole non sono consolatorie come quelle che comunemente si adottano,
adducendo argomentazioni riferite a positività che, paradossalmente, finiscono
di far sentire più solo e sconsolato chi
sia già solo e sconsolato. La sua produzione artistica nasce da un suolo
(per assonanza viene il termine inglese soul) desolato - come quello del “Vesevo”
su cui fiorisce rigogliosa la Ginestra - in sintonia con l’animo di chi si trovi in crisi esistenziale.
Riporto due mie datate composizioni in versi in
cui mi son sentito in sintonia, oltre che
con Foscolo, con il Leopardi
dell’”apparir del vero”:
VARIAZIONI
SU TEMI LEOPARDIANI ( A Se stesso)
E SU
TEMI FOSCOLIANI (Alla Sera)
Inesorabile
avanza il giorno, / rendendo al circostante le forme delle dure essenze
già
dissolte nel buio della notte, svelando
la realtà di ieri, / con la speranza del meglio, ma pure con il timore / del
"peggio che non ha mai fine"! /
Altrettanto inevitabile, e a volte
troppo duro,
l'impatto
all'emergere della consapevolezza! / Ma a rendere più o meno sgradevole
l'incontro con il reale
è, spesso, il
conseguente dissolversi dell'
immaginario onirico / e, ancor di più, dei "cari inganni"
d'onde, ieri,
anelante, ti pascevi di speranza. / Se
un tale ricorrente evento a te risultasse troppo crudele
e, per
questo, volessi por fine al deludente gioco, / dovresti uccidere la genitrice
di ogni cocente delusione. eliminare la
fonte d'onde scaturisce ogni illusione: / la Speranza;
ma allora
dovresti pure tener conto / che ti
priveresti di questo essenziale/, sia pur ingannevole, propellente della
vita! / Fin tanto che la Speranza, /
incontrastata albergherà in fondo al tuo cuore,
perennemente
riuscirà ad allettarlo, / giacché, a
dispetto di ogni precedente,
negativa esperienza , come la mitica salamandra dura a
morire, / essa rinascerebbe sempre dalle
ceneri di ieri, / perché la tua vita a barcamenarsi prosegua / nell'eterno
gioco delle illusioni e conseguenti
delusioni!
Roma, 15 aprile
1996
Con
l’enigma informato alla Speranza “che delude sempre”, la rancorosa Turandot sfida
il temerario principe Calaf che
osa aspirare alla sua mano: “Nella cupa notte vola un fantasma iridescente.
Sale, dispiega l’ali sulla nera, infinita umanità! Tutto il mondo lo invoca,
tutto il mondo lo implora! Ma il fantasma
sparisce con l’aurora per rinascer nel cuore! Ed ogni note nasce ed ogni
giorno muore!”.
Ed ecco l’altra poesia (prelavata, come quella precedente, dalla
raccolta di mie composizioni in versi nell’
INTERMEZZO (v. nel sito: www.pierluigialndo,net: MISCELLANEA).
Questi versi concepiti in un giorno di febbraio, quando, uscendo dall’ufficio, osservavo delle piante fiorite come in avanzata
primavera ):
Piante, che ai primi
soli, / quando ancora le invernali
intemperie son lì in agguato/, dei vostri fiori aprite le corolle, / perché non date retta al
sensibile Poeta, / che, ancora una
volta, / rivolgendosi/ alla “Madre
temuta e pianta”, / che, “per uccider, partorisce e nutre” / s’era schierato
dalla vostra parte, / rampognandola così: "perché di tanto inganni i figli
tuoi?"/ Perché, quasi ogni anno, v'illudete tanto facilmente, /
prestandovi all'insidioso gioco? …/ Quando il sole precoce vi fa sentire / ch'è
giunta primavera, / oh, state
attente, prima di sfoggiare / gli smaglianti, delicati colori dei vostri fiori, /che, fiduciosi, si stagliano sul cielo di cobalto.
/ Infida è spesso Primavera
che, con imprevedibile bufera, / potrebbe, col suo gelo immobile,/ in un attimo, rovinare gli sprovveduti petali,/
rendendo vano il lento tessere della Natura.
Roma,
22 febbraio 1992
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